Il paradigma della crescita non supererà il picco del petrolio

Il «peak oil», momento di massima produzione di petrolio oltre il quale inizia una inesorabile discesa, è un fantasma di cui si discetta da decenni. Già negli anni Cinquanta il geofisico americano Marion King Hubbert allarmò i petrolieri paventando il raggiungimento del picco, sul continente statunitense, negli anni Settanta.

Hubbert indovinò e divenne un punto di riferimento. Vent’anni dopo le grandi crisi petrolifere, Colin Campbell riprese in mano i suoi studi diventando uno dei massimi esperti internazionali. Nel 2001, mettendo insieme diversi scienziati e contributi, fondò Aspo, acronimo di Association for the study of peak oil.

A oltre cinquant’anni dalle prime previsioni di Hubbert il mondo si interroga davvero su come andare oltre quel barile di oro nero che ne accompagna lo sviluppo da 150 anni. Luca Pardi, vicepresidente di Aspo Italia e primo ricercatore dell’Istituto per i processi chimico-fisici del Cnr, prende spunto dall’intervista rilasciata al Sole24ore.com da Claudio Bertoli, direttore del Dipartimento Energia e Trasporti del Cnr, in cui veniva previsto il collasso energetico per il 2065 e il picco del petrolio per il 2030. Pardi contesta sia le previsioni temporali che l’analisi delle soluzioni (il Cnr indicava nella fusione nucleare la maggiore promessa, ndr). «Il metabolismo socio-economico del pianeta dipende dal petrolio – spiega Pardi -. E’ la fonte energetica più conveniente, non esiste nulla di paragonabile: è per questo che il momento di picco è un evento critico di dimensioni inaudite. Vediamo una certa semplificazione del problema che rischia di indurre un eccessivo ottimismo nel settore e nei cittadini».

Il Cnr prevede il peak oil per il 2030. Voi?
C’è molta confusione. Nel novembre scorso l’Agenzia internazionale per l’energia (Aie), agenzia intergovernativa dei paesi Ocse, ha presentato, nel suo World energy outlook 2008 (Weo2008) un quadro della situazione e le proiezioni fino al 2030. Ebbene, il picco del petrolio estratto dai giacimenti in attività è già stato raggiunto. Il picco globale potrebbe, secondo l’Aie, essere rimandato a dopo il 2030 solo se si comincerà a produrre petrolio da risorse il cui sviluppo richiederebbe ingenti investimenti: la stima è di ventiseimila miliardi di dollari. Investimenti che, al momento, appaiono fuori dalla portata di qualsiasi compagnia petrolifera pubblica o privata. La produzione globale oggi arriva a 83-85 milioni di barili al giorno. Il livello è lo stesso dal 2004. I modelli secondo noi più attendibili indicano un possibile momento di picco per il 2010.

Quindi l’anno prossimo. Eppure vengono scoperti nuovi giacimenti, come quello di Bp nel Golfo del Messico, definito dalla compagnia «gigantesco»…

Vero, ma il giacimento di Tiber, stando a quanto dice Bp, contiene 3 miliardi di barili che dopo le prime trivellazioni potrebbero arrivare a 6 miliardi. Non è poco, ma nel mondo ne vengono consumati 30 miliardi l’anno. Siamo a un decimo. I giacimenti scoperti negli anni Sessanta, come quello di Ghawar, contenevano 170 miliardi di barili. Dall’inizio degli anni Ottanta consumiamo più di quanto troviamo.

Le nuove tecnologie non possono allontanare la data in cui il petrolio inizierà a diminuire andando a scovarlo in posti un tempo impensabili?
Può incidere ma molto poco. Credo che la nostra previsione sul momento di picco abbia un margine di errore di cinque anni, non venti o trenta.

Passiamo al carbone. Diverse analisi concordano sul fatto che durerà di più.
Sì, ma meno di quanto si pensi: molte delle riserve disponibili non potranno essere sfruttate al 100%. Oltre un certo limite l’estrazione non è più conveniente. Uno studio del 2007 dell’Energy watch group prevede un picco globale del carbone entro la metà del secolo.

Cosa c’è oltre?
Crediamo molto nelle fonti rinnovabili. La critica che viene mossa storicamente a questo tipo di energia è che il suo contributo rimane marginale nella torta complessiva e intermittente (il fotovoltaico non funziona di notte, l’eolico quando non c’è vento, ndr). La crescita degli ultimi anni è stata rilevante in assoluto, meno in relazione al fabbisogno energetico. Guardando avanti bisogna puntare sulle grandi centrali, non solo alla microgenerazione. Arrivare alla produzione di centinaia di Megawatt. Per uscire dalla nicchia. Io stesso sono tra i piccoli investitori del progetto Kitegen per l’eolico d’alta quota che può fornire notevole potenza e risolvere il problema dell’intermittenza, visto che in quota i venti sono più abbondanti.

E il nucleare?
Le tecnologie da fissione nucleare sono affidabili e mature. Il punto è che le circa 450 centrali attualmente in esercizio dipendono per circa il 40% dall’Uranio di riserve strategiche accumulate in passato e certamente finite. Anche qui ci sarà un picco, previsto per metà secolo.

In cinquant’anni potrebbero però vedere la luce le centrali di quarta generazione e quelle a fusione nucleare.
Ha detto bene, “potrebbero”. Sono tecnologie estremamente complicate, diffido di appuntamenti così lontani nel tempo.

Però anche le vostre previsioni sul picco del carbone e dell’uranio arrivano a metà secolo
Fare previsioni non è mai semplice. I modelli servono per ragionare con un set di variabili sulle direzioni future, non per indovinare l’anno preciso. Il problema è che le politiche vengono scelte su modelli mentali, mentre quelli di cui parlo sono fisico-matematici. Spesso si fanno paralleli con il passato, pensando che all’era del petrolio ne seguirà un’altra, fucina di ulteriore sviluppo.

Non è così?
Chi l’ha detto? Io credo che ci sarà un cambio di paradigma. La crescita economica continua ed infinita finirà. Non si tornerà alla stessa abbondanza. Gli ecosistemi terrestri non possono reggere questi ritmi, lo sviluppo ha dei limiti. Dovremo abituarci.

luca.salvioli@ilsole24ore.com
Fonte: Ilsole24ore.com

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